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9 Dicembre 2008

Kitchen

Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola. Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in un posto freddo, o al caldo insieme a qualcuno, mi piacerebbe poterlo affrontare senza paura. Magari fosse in cucina!

Con Kitchen, nel 1988, Banana Yoshimoto si è imposta all’attenzione del pubblico mostrando attraverso il romanzo un’immagine del Giappone completamente sconosciuta agli occidentali, con un linguaggio originale che vuole essere una rielaborazione letteraria dello stile dei fumetti manga. La scelta, da parte della scrittrice giapponese, di usare la cucina come scenario per la rappresentazione delle emozioni della protagonista, visualizza un passaggio fondamentale della percezione collettiva relativa agli ambienti domestici. La cucina, per Mikage (protagonista della storia), è il simbolo della ricerca di protezione e di calore. Un rifugio, scenario di confessioni, di ricordi e di angosce. Una metafora della faticosa ricerca della dimensione familiare perduta.

La traslazione dei contenuti semantici in questo racconto è di assoluto interesse anche per il nostro index. Lo stesso titolo del romanzo, Kitchen, è un rafforzativo che deriva dall’ossessione della protagonista per la cucina pur trattando, in realtà, di problemi legati alla solitudine giovanile connessi alla perdita della famiglia nel tentativo di ricostruirne una nuova (magari scegliendola). In questo contesto, così interiorizzato, viene scelta proprio la cucina ed il suo spazio fisico come riflesso dei sentimenti e degli stati d’animo possibili. Le cucine nuovissime e luccicanti o vecchie e vissute, che riempiono i sogni di Mikage rimasta sola dopo la morte della nonna, rappresentano così la dimensione della possibile famiglia come desiderio ultimo. Attraverso gli aspetti morfologici e le pratiche rituali connesse al mondo della cucina si consumano, in questo romanzo, non solo le pietanze ma anche i sentimenti e le aspirazioni secondo i fattori emozionali più profondi.

E’ chiaro che stiamo parlando, quindi, di cucina come ambito facendo un ovvio riferimento al primo termine indagato in questo viaggio nel vocabolario della residenza contemporanea. La concezione fondamentale è lo svincolo assoluto dal tradizionale mondo della cucina post bellica dalla pura esperienza monofunzionale della preparazione e (forse) consumo del cibo, verso una dimensione più aperta ed interpretativa dello spazio dedicato (anche, ma non solo) a tale scopo. I riferimenti letterari e cinematografici (pensiamo anche al film scandinavo di Bent Hamer, Kitchen Stories, in cui un esperimento di psicoanalisi collettiva prevede l’osservazione scientifica di un gruppo di scapoli norvegesi, per vedere come se la cavano in cucina) ci aiutano a constatare il nuovo ruolo della cucina nel nostro tempo. Analogamente a quanto accade nel wellness per la cura del corpo e del proprio benessere psicofisico applicato ai servizi di una residenza, anche l’ambito della cucina assume una nuova identità ludico-celebrativa. Il culto dell’alimentazione si glorifica anche attraverso canali televisivi tematici (pensiamo al Gambero Rosso Channel) che esaltano il ruolo della sana e buona alimentazione, in modo da costituire l’ulteriore rituale domestico da riscoprire inteso come fattore sociale di aggregazione e valorizzazione dei rapporti umani per mezzo del cibo e del suo contesto.

La cucina diventa lo specchio dell’abitante. Racconta la sua anima e rappresenta la personalità (introversa se chiusa e limitata da strutture fisiche, estroversa se aperta e dichiarata alle “interferenze” con gli altri ambienti della casa) di chi vive e la fruisce secondo le necessità operative e di immagine. Ogni cucina racconta il sistema di vita dell’abitante. Quella dello scapolo, minimale ed essenziale senza molte opportunità di esercizio, quella del cultore, protagonista assoluta dello spazio sbilanciando, magari, i rapporti con il resto della casa, quella della famiglia, opportunamente dimensionata per una “serie” di necessità, quella tradizionale, chiusa e definita dentro una stanza adibita alla separazione delle attività e degli odori (perché se fossero profumi non ci sarebbe nulla di male ad offrirsi verso le altre parti della casa…), etc. Potremmo, in questo modo, elencare una serie infinita di “caratteri” che raccontano le nostre personalità attraverso i “modi” di essere cucina in una casa.

Si possono rintracciare, allora, forme e misure che stabiliscono i rapporti intrinseci dell’ambito cucina. La struttura sottesa che riflette i flussi di percorrenza, secondo strategie di ottimizzazione ergonomica e di immagine, svela il criterio dell’utente nel disporre del proprio spazio vitale, in relazione al proprio rituale domestico. Assistiamo a configurazioni spaziali di tipo “ad isola”, dove si individua la cucina come luogo dominante nell’ambiente in cui si trova. Essa diventa “un oggetto” della casa ed acquisisce un ruolo determinante come immagine, icona di se stessa e della residenza intera. Si costituisce un flusso circolare di percorrenza dinamica rispetto alla sua conformazione in aggiunta alla massima interferenza ludico-operativa. E’ possibile, invece, concepire un ambito di tipo “passante”: la cucina può diventare il passaggio lungo il quale si snodano attività diversificate e sviluppare situazioni che sono “altro” rispetto alla funzione principale (pensiamo, per esempio, alle due residenze a patio di Rem Koolhaas a Rotterdam). In questo caso si estende il flusso di percorrenza dall’oggetto all’ambito in cui esso si trova, a differenza della classica “parete attrezzata” che raccoglie tutte le funzioni della cucina secondo un unico sistema lineare di margine. Altra immagine può essere affidata alla cucina a “penisola”, che presuppone una commistione di attività interagenti tra loro. Essa può diventare un luogo occasionale per il pranzo e delinea il coinvolgimento di altre persone e attività intorno all’azione culinaria. Determina flussi diversificati e consente una percezione visiva maggiore degli ambienti circostanti nonché un principio potenziale di semi-interferenza.

Tutte queste immagini raccontano molto di più di una semplice necessità funzionale. Ogni aspetto definisce un rapporto intimo fra utente, il protagonista della casa, e lo spazio di tipo Kitchen come abilmente ha significato nei romanzi della contemporaneità. Kitchen vuole essere un concetto, andare oltre lo spazio cucina.

Del resto avete mai considerato con quale familiarità viene associata la lettera K con l’ambiente cucina nelle planimetrie di una residenza ? Dai disegni tecnici alle piante delle agenzie immobiliari fino alle sintesi simboliche dei progettisti di interni la lettera K (analogamente a quanto accade all’associazione con i servizi per le lettere WC…che forse pochi sanno essere le iniziali di water closet) riassume il valore di un determinato contesto in modo più immediato e diretto della possibile iniziale C-cucina.

Che, analogamente a quanto raccontato dalla Yoshimoto, la cucina/kitchen costituisca il riscatto di una nuova condizione mentale in cui, forse, la celebrazione culinaria rappresenta solo uno dei possibili piatti ?

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