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22 Agosto 2010

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L’intervento infill sembra appartenere alla evoluzione fisiologica della città.

Quando, oltre dieci anni fa, la rivista Lotus faceva uscire un numero (92/1997) sul tema della “residenza interstiziale” il termine infill assumeva di fatto la sua piena consacrazione. Nel testo veniva citato il pensiero di Arata Isozaki che introduce il neologismo infill come uno dei concept fondanti della residenza contemporanea percepita, soprattutto nelle realtà urbane, secondo criteri di insediamento derivati proprio dalla natura dell’organismo vivente (in riferimento al processo di sostituzione di una parte delle molecole che lo costituiscono per essere rimpiazzate da altre nuove). Questi interventi fissano, attraverso il mutamento e l’innovazione, il modello urbano a cui appartengono, e agiscono all’interno di un ciclo naturale, che costituisce ed alimenta il divenire delle città. Facciate, paesaggi, ingressi, scale, appartamenti e minuscole corti compongono una teoria di piccoli flash urbani, …atti minimi di decostruzione del tessuto, piccole finestre sul futuro della città…scrive Alessandro Rocca.

La residenza infatti costituisce il corpo della città, i tessuti la raccontano e ne identificano le parti, ma la città è un fenomeno dinamico in continuo movimento, oggi sempre più accelerato e sfuggente. Il fascino, forse anche inquietante, che emanano le metropoli contemporanee deriva in gran parte dalla capacità delle stesse di accogliere nel loro grande ventre tutti i conflitti della modernità, gli opposti sia sociali che culturali, sia economici che politici o ideologici. Una attenta analisi dei fenomeni urbani considerati tutti compresenti e non separati, fa leggere la città come un unico atto complesso che ingloba tutto il suo essere e tutte le sue “storie”, un’analisi che vede la città come un immenso colloquio (…una conversazione) di epoche, di strati e d’oggetti tra i più differenti che si integrano, s’aggregano in un mélange di libertà, di regole e differenze. Un’architettura non è un oggetto solitario, l’illustrazione di una “teoria per la città”, ma la risposta ad un luogo di cui si rinnova il senso attraverso una nuova percezione spaziale, audace nel processo di ridefinizione ma rigorosa nelle regole del contesto. Intervenire nella città ha il senso, allora, di una cura che utilizza l’agopuntura piuttosto che la chirurgia invasiva affinché nuove molecole siano immesse in circolo e producano reazioni a catena di rinnovo urbano sensibile e virtuoso. Anche gli spazi “da abitare” sono chiamati a riflettere, assecondare, esprimere nuove condizioni determinate da un uomo che svolge la sua vita intersecando quotidianamente piani e dimensioni differenti dell’esistenza, che provocano e sollecitano le sue intuizioni, ma anche desideri e percezioni per definire nuove modalità di relazione tra se stesso e lo spazio che lo circonda, tra la collettività a cui appartiene e la propria individualità.

E’ possibile allora cogliere nella città, in ogni città, molteplici opportunità come situazioni particolari che potremmo definire assenze, dei non finito che nel processo edificatorio hanno mancato l’occasione (tra un P.R.G. e/o un Piano Particolareggiato) per completare un isolato o sostituire una costruzione minima rimasta inclusa tra edifici di maggiore dimensione che nella maggior parte dei casi la fiancheggiano con pareti cieche. Partendo da un fronte-strada di ridotte dimensioni questi infill spesso offrono sia in profondità che in altezza delle potenzialità notevoli per progetti innovativi sia tipologicamente che per le tecnologie necessarie ad affrontare condizioni tanto particolari. Si creano così nuove cellule staminali capaci di rinnovare un tessuto urbano così inteso come un organismo. Veri e propri interventi di sostituzione, neoplasie architettoniche rispetto agli elementi di permanenza della struttura urbana, o piccole proiezioni sul futuro dell’isolato di appartenenza, attraverso l’introduzione di un lento ma inesorabile processo di trasformazione dell’insieme.

Il confronto con lo stato preesistente e le regole sottese dell’isolato urbano introducono ai diversi argomenti che caratterizzano le strategie di intervento possibili: la facciata che costituisce il fronte urbano focalizza il tema del “confine” tra lo spazio pubblico e privato, la situazione di alta densità non resta solo come occasione d’invenzione ma diventa un’ipotesi di condizione sostenibile (anche compatibile con uno stile di vita di alta qualità), il vuoto diviene un elemento attivo della progettazione nel tentativo di concepire l’organizzazione degli spazi anche attraverso il valore della luce zenitale (si delinea, in questo modo, l’dea dello spazio “tra” le cose come strategia di progetto). Il modello tipologico di riferimento, la porzione di residenza a blocco, può risultare quindi inadeguato rispetto alle sollecitazioni della nuova dimensione urbana sia rispetto all’utenza (mutevole ed instabile nella definizione delle proprie esigenze) che alle problematiche di rinnovamento morfologico dell’insieme, in rapporto all’inevitabile trasformazione come testimonianza del divenire della città.

In tale contesto molti dei termini sin qui introdotti nell’index assumono un ruolo consapevole nel modo di intendere il progetto di architettura. Si configurano allora diagrammi che concepiscono ambiti per determinare una flessibilità assunta come uno degli strumenti della composizione, un modello concettuale attraverso il quale è possibile instaurare le relazioni strutturali sia nella definizione dello spazio della residenza che nel rapporto fra i vari elementi che costituiscono l’isolato urbano. In questo modo è possibile esplorare i concepts della contemporaneità tradotti come opportunità nella ricerca tipologica oltre che esito di rinnovamento morfologico. La quarta dimensione, per esempio, è un parametro che ormai appartiene alla nostra cultura come coscienza del tempo in quanto variabile significante dello spazio fisico. La sedimentazione di questa semplice informazione  si manifesta oggi nella poetica dei flussi come ultimo esito di una “speculazione” concettuale che però è testimonianza di un nuovo “valore” assunto come paradigma. Questo principio offre spunti che hanno prodotto esiti di altissima qualità e sensibilità compositiva attraverso l’introduzione, per esempio, della promenade come strumento attivo del movimento del corpo umano (oggi espresso come sensore errante dell’involucro abitativo) all’interno di un edificio.

In “ambito infill” la possibile promenade si definisce allora attraverso un percorso passante, che al piano terra può offrire diverse opportunità di relazione con il contesto (ed in modo particolare con la strada), diluendo lentamente il passaggio dallo spazio pubblico a quello privato. Così inteso il percorso connette le diverse attività, che si dispongono lungo il suo sviluppo, in modo da costituire un’ordine che trasferisce il macrocosmo urbano nel microcosmo dell’infill. Sembra di raccontare in sintesi la stupenda casa del Dott. Currutchet, che Le Corbusier concepisce e realizza a La Plata alla fine degli anni quaranta, intesa qui come manifesto della modalità infill. Infatti quando Philippe Gazeau nel 1995 trasferisce questi contenuti in un sistema plurifamiliare ottiene a Parigi risultati ancora incoraggianti, anche per mezzo dello sviluppo in verticale della promenade come elemento di articolazione delle residenze (tutti i locali, infatti, pur inseriti in uno spazio estremamente sacrificato godono di luce qualitativa diretta). In qualche modo, se volessimo riferirci ad un tipo edilizio specifico, il concetto di casa a ballatoio viene rielaborato e sviluppato attraverso un sistema più complesso perché coinvolto da più fatti fra loro che sono interrelati topologicamente, forse secondo una nuova coscienza olistica.

Gli esempi interessanti sono tanti e diffusi, dalle case unifamiliari di Waro Kishi (misurate su dimensioni incredibilmente costrette) al suo maestro Tadao Ando, che in casa Azuma introduce un vuoto centrale come elemento di separazione e fulcro spirituale della residenza. Ogni intervento raccoglie incredibili fattori potenziali e spunti per riformulare il rapporto casa-utente. La concezione dell’appartamento, tradizionalmente caratterizzata dal tramezzamento di piani compresi (e compressi) tra due pavimenti, viene, nel caso infill, ad essere dominata dalla dimensione verticale. L’abitazione diventa un volume in cui le differenze di livello qualificano i vani e consentono percezione e movimenti più articolati all’interno dello spazio. Negli interni troviamo allora la ricerca dell’illuminazione zenitale, lo sfondamento dei livelli che  genera spazi a doppia e tripla altezza.

Secondo questo approccio dal punto di vista tipologico si delineano modelli ibridi, sempre meno riconoscibili e lontani dal rigido schema tradizionale a cui il tema della residenza è stato per lungo tempo relegato. Questa possibile conseguenza rende però tali impianti più versatili e disponibili a misurarsi con le esigenze eterogenee e mutevoli dell’utenza (fruitore finale) e degli operatori del settore (imprenditori/costruttori) così da vedere a Tokyo come ad Amsterdam e New york l’intervento infill presente, possibile e trasversale.

Se allora la casa rappresenta il luogo della pluralità delle dimensioni dell’uomo, la modalità infill può raccogliere la dimensione urbana come alternativa consapevole?

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