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Museo Andersen, Roma

allestimento temporaneo

UTOPIA PRATICABILE
mostra temporanea in collaborazione con C.Campus ed A.Abbruzzese

Tre passaggi lungo l’intero percorso della modernità:

a) Marx che dice concreto il lavoro di chi, possedendo i materiali e i mezzi di produzione, possiede anche tutta l’intelligenza necessaria a creare l’oggetto del suo modo di produrre; e dice invece astratto quel lavoro che, avendo perduto la proprietà dei materiali e mezzi di produzione, ha conseguentemente perso ogni possibile conoscenza soggettiva del proprio fare e produrre, cosicché l’oggetto che gli si pone di fronte come prodotto è enigmatico al suo sguardo, poiché ora è solo la capacità di astrazione del Capitale ad detenerne il significato reale;

b) Kandinskij che inventa l’estremo azzardo dell’arte nel tempo della riproducibilità tecnica e delle merci, il gesto per cui il massimo di lavoro concreto, quello dell’artista, anzi del genio assoluto, puro intelletto, rifiutando di entrare in comunicazione con la società, e  dunque negandone i linguaggi, si mette alla pari delle astrazioni del denaro e del mercato, cosicché alla fantasmatizzazione del mondo messa in opera o meglio a compimento dal capitale fanno da contraltare le opere dell’arte astratta; finalmente essa incornicia, fa vedere, rende visibile, ciò che il materialismo della produzione, visto da un’ottica spiritualista, mette in ombra;

c) Duchamp che chiude la partita dell’arte, facendosi intelligenza dei modi d’essere del mondo come costruzione simbolica dei suoi conflitti globali, dunque estremizzando l’estetizzazione della vita quotidiana che, da allora in poi, sempre di nuovo si rovescia in quotitianizzazione della vita estetica. Tutto ciò che viene svelato viene anche utilizzato, tutto ciò che viene utilizzato e di per sé svelato. Viaggio di andata e ritorno: dall’arte al mercato e poi di nuovo all’arte; dalle arti del marcato nuovamente ai mercati dell’arte. Le cornici non hanno più alcun significato relativamente al vedere che incorniciano ma, grazie al carattere magico del capitale, lo hanno riconquistato di per se stesse in quanto soglie tra incanto e disincanto, dispositivi di attribuzione e sottrazione di aura o status.

Il lavoro d’artista, dalle avanguardie storiche in poi, ha dovuto sempre decidersi sul che fare della propria vocazione e del proprio ruolo: prendere partito per le forme tradizionali dell’artigianato, per un lavoro concreto che insiste su se stesso, sui suoi materiali e suoi mezzi; oppure prendere partito per le astrazioni dell’arte come spirito assoluto, universalità di se stessa a fronte di un mondo diviso e incoerente. Aura costretta sempre a restaurarsi.

Molte performance, elettroniche o no, sembrano serenamente dimentiche di Benjamin, recuperando, secondo il neorinascimento che dilaga nelle buone società della città creativa, una sfacciata promessa di felicità. Le attuali esperienze della public art o dell’arte relazionale hanno imparato da McLuhan a ragionare sempre meglio su sensi e linguaggi e poteri, ovvero su territori, piattaforme espressive e marketing, ma sembrano del tutto immemori di Duchamp nel credere che ancora vi possa essere una via mediana tra estetizzazione della società e socializzazione dell’estetica, un punto in cui salvarle tutte e due o quantomeno salvare l’uomo in sé. Il problema, infatti, è che questo loro credere corre sempre il rischio tornare a estremizzare l’arte oppure a estremizzare la società comunque nell’ordine tradizionale – tipicamente moderno – del “principio speranza”: salvezza e redenzione del mondo, laboriosità tesa al suo riscatto.

In questo panorama, mi pare che le sfide più interessanti siano invece costituite da chi mostra di avere in tutto assimilato la decostruzione dell’arte messa in opera nel primo epocale impatto novecentesco tra i linguaggi delle arti storiche e i linguaggi dei media e del mercato. Di avere a tal punto assimilato la lezione delle avanguardie da lavorare in profondità sulla totale assenza di possibili sviluppi che non siano affidati a ciò che quella stessa decostruzione – epocale, irreversibile – ha lasciato sul campo: tecniche del fare artistico, “tecniche del rifiuto del mondo” della tecnica, direbbe Max Weber, che nelle tecniche cintro il mondo vedeva comunque una forma di razionalizzazione compiuta per via mistica invece che attiva, negativa invece che affermativa; tecniche a mezzo di tecniche,  ormai sperdute nella fatalità del capitale come nuda vita del mondo, come definitivo riconoscimento del suo fatale non essere e non potere essere altro da quello che è.

Ecco: mi pare che – a fronte di questa resa dei conti già avvenuta un secolo prima del nostro tempo presente – il meglio dell’arte così come il meglio del capitalismo non vengano da chi lavora per dimenticare la lezione, per cercare qualche ragione di nuovo reincantamento, ma da chi, invece, riprende il sentiero interrotto per restarci dentro, sapendo  finalmente riflettere sul senso di una soglia tragicamente sospesa su se stessa. Per sempre. Su un vuoto che non si può colmare. Anzi, che non va colmato. Sommersi come siamo da estetiche del riscatto, dedite a riproporre salvifiche bellezze e invalicabili verità, oppure da etiche dell’impresa, ridicolmente umaniste e progressiste, o peggio ancora etiche della politica, miseramente impotenti o lucidamente determinate a persistere nelle proprie logiche imperiali, a me pare che il solo modo di mostrarsi responsabili della vita che abitiamo, sia quello di tornare a tenere lucidamente infisso lo sguardo su ciò che è senza via d’uscita. Su ciò che si era già interamente compiuto, fatto chiaro, rivelato, nella dissoluzione novecentesca dell’ottocento e che  – questo il vero crimine della tarda modernità – le etiche, estetiche e politiche contemporanee hanno negato che fosse accaduto. Continuando a produrre, vendere e fare consumare speranze. Questo, l’unico bisogno indotto che le istituzioni e gli apparati della critica avrebbero dovuto rifiutare.  

Via di Pietra Sanguigna a Pietralata: tipica sopravvivenza romana di una dimensione forte, densa ancora di vita tradizionale, eppure sospesa nel tempo, resistente ai tumulti dello sviluppo urbano, ironicamente inalterata, grazie alla sacra, taumaturgica indifferenza di chi vi svolgeva giorno dopo giorno il proprio “lavoro concreto” senza ancora essere toccata la fretta illusoria ma rivelatrice del “lavoro astratto”. Un luogo dunque della “di sparizione” delle aristocrazie del lavoro. In questo luogo, Ciriaco Campus decise di aprire per qualche tempo la sua bottega d’artista. E “Artigiani ‘96” è stato uno dei frutti di quella sua appartenenza a Pietralata.

Nei ritratti fotografici degli artigiani del luogo – serie di “mestieri” dotata di intonazioni medioevali e rinascimentali ottenute attraverso le studiatissime dimensioni, positure, colorazioni, dei singoli personaggi – Campus, sempre teso a ridefinire la sua infanzia, ad assegnarle sempre nuovi territori, nuove dislocazioni,  ha visto riflessa e ha riflesso la propria vocazione personale al lavoro d’artista, la propria appartenenza: “dalla materia, all’energia, al linguaggio”, questo era il titolo di una sua personale del 1994; e “messa in scena del lavoro di un artista” un titolo del 1995.

Accade assai spesso nelle opere di Campus che il loro tema ispiratore appartenga a due energie opposte, sia nel loro strategico reciproco incastro: l’una, legata alla materia prima e alla perizia dei modi con cui dominarla, lasciandola tuttavia riconoscibile, quasi intatta, per quanto in tutto invece falsificata; l’altra, vincolata al massimo di astrazione  mentale, concettuale, assolutamente necessaria a Campus per dare una voce, un linguaggio all’operazione intrapresa, al suo farsi opera. Sono state queste due energie – l’una contro l’altra, senza pacificazione eppure con l’invenzione giusta per tenerle insieme, per garantirne la tenitura più efficace – a bilanciarsi sino ad oggi in varia misura: quale fosse il materiale, il luogo, il format, l’evento intrapreso da Campus.

Questo dualismo  caratterizza anche l’esperimento di integrazione, convogliato nel  progetto sperimentale  condotto insieme al gruppo di architetti Pentastudio. La dimensione che unisce l’artista e l’architetto, in questo caso, è complessa e articolata rispetto ai reciproci percorsi, molto diversi nelle due modalità di indagine ed esecuzione, ma assolutamente coerente nel “territorio concettuale” in cui le due realtà si sono reciprocamente esplorate. Per Pentastudio, anche l’appropriazione dei mezzi di comunicazione multimediale può essere duplice, perchè valorizza sia le analisi che i meccanismi di alterazione degli equilibri percettivi tradotti nello spazio fisico. Si configura in questo modo il processo attraverso il quale la quinta dimensione (il mondo virtuale) diviene una condizione mentale e al tempo stesso operativa dell’architetto che offre  all’artista  “proiezioni possibili”.

Da un lato lo stimolo artistico a fare, dall’altro la costrizione intellettuale a pensare le condizioni comunicative in cui il fare – l’intera sua filiera, dal lavoro di produzione al fatto – precipita. Si deposita e offre allo sguardo.

Quando Campus mostra o mette in scena, il suo pubblico è già inscritto nell’opera come intelligenza della comunicazione-mondo. Quella di Campus è una sfida perpetua con le  grandi marche, le multinazionali private e pubbliche, i consumi globali della comunicazione-mondo. E’ il suo modo di intendere il glocal: l’arte è al posto del locale, ma la sua produzione e il suo consumo sono al posto del globale. Una sfera non può fare a meno dell’altra: ciascuna si libera e costringe nell’altra. E dunque il lavoro d’artista oggi per Campus è pensare globale e locale, insieme separati e uniti, far vedere come coesistono separati e come si separano coesistendo. Nessuna altra intenzione che de-costruirli, farsi lui stesso teatro di questa decostruzione.

Tuttavia, in alcuni dei suoi ultimi lavori, sta accadendo qualcosa di diverso o di più rivelato e presente rispetto al passato: le istanze del globale e del locale ora si stanno manifestando attraverso tecniche di immersione: c’è una vera e propria regia di suoni e immagini volta a invadere la tattilità mentale di chi si avvicina al suo lavoro. L’idea di ridefinire, insieme a Pentastudio, ciò che ora è Pietralata, alla luce di ciò che essa è stata al tempo dei suoi Eroi Artigiani, rientra perfettamente nella determinazione che – oltre ad una ancora più accentuata attrazione per il mondo come accumulo di memorie da riversare al presente senza alcuna decorazione estetica – Campus sta sempre più manifestando con la coerenza progettuale che gli è propria (quanto più rara altrove, dovunque): decostruire il consumo dentro il consumatore e il consumatore dentro il consumo attraverso una sorta di direzione tecnologica – dunque fatta di straniamenti e automatismi – delle emozioni soggettive e oggettive del mondo.

Dalla decostruzione del territorio (l’architetto) alla distorsione della sua percezione (l’artista) si innescano continue opportunità di rielaborazione delle trans-formazioni possibili. La sovrapposizione delle molteplici temporalità costituisce la stratificazione dell’allestimento, inteso come pluralità di “momenti” e  percezioni. Si determina in questo modo  un non-luogo di compresenze attraverso la sinergia di informazioni secondo traiettorie individuali che diventano reciproche.

 Le tecniche dell’arte servono qui ad attivare le tecniche della sua soggettiva fruizione, tuttavia per nulla come opera d’arte ma come “macchineria” esperienziale in cui materiali, energie e linguaggi sono affidati ai suonatori mentre la cassa armonica – la stanza in cui l’immersione si compie – è ancora interamente concepita dal “grande artigiano”.L’estremo sforzo di Campus di un lavoro concreto che si offre al consumo non per dominarlo o negarlo ma per infrangersi nelle infinite divisioni e alienazioni del lavoro astratto, ha come dinamica contrapposta Pentastudio che avvia la sua ricerca verso l’indeterminatezza in una sorta di ribaltamento di ruoli e rapporti con l’obiettivo di sondare dimensioni possibili al di là e oltre il semplice trasferimento di informazioni. Nasce così una dimensione onirica dell’architetto,come nel film di Bunuel, una figura che introietta si nutre e digerisce metabolizzando  una rinnovata sensibilità.

CIRIACO CAMPUS – PENTASTUDIO

L’osservatore viene coinvolto all’interno di un contesto (una sorta di galleria-percorso definita da suoni ed immagini) in cui le dimensioni fisiche sono alterate, in modo da annullare il più possibile qualsiasi riferimento ad uno spazio noto (finestre, porte, decorazioni, pavimenti etc)

1) Si accede secondo una visione prospettica centrale, visto la poca profondità della stanza dove avviene l’intervento installativo, viene creato l’artificio di allungamento prospettico, già usato dal Borromini a Palazzo Spada. La parete di fondo, divisa in due parti, accoglie una sequenza di immagini sincronizzate con un suono (metronomo) che definisce il tempo e la durata ora di un’immagine ora di un’altra. La successione dei contenuti visivi vede l’alternanza delle immagini del contesto attuale (attività artigianali) rispetto ad immagini di una radicale trasformazione locale ormai imminente (è stato già inoltrato lo sgombero dell’area rispetto all’intervento di ridefinizione urbana secondo il nuovo sistema terziario-universitario di Roma). Come un metronomo, le immagini scandiscono visivamente il tempo alternando la parte destra alla sinistra dello schermo secondo una ciclicità ininterrotta.

2) A supporto di tale relazione visiva (principale) sono introdotti, posizionati a terra,  n°3 schermi video (secondo una disposizione casuale) in cui vengono trasmessi altri contenuti, sempre legati al contesto ma con modalità o rapporti narrativi differenti.

A- Il primo video raccoglie le immagini dinamiche del contesto attuale come una sorta di documentario dello stato di fatto, presentando  anche i protagonisti reali della vicenda (gli artigiani locali).

B- Il secondo video, in complementarità diacronica con quello precedente, raccoglie le immagini dinamiche di un contesto futuro (o futuribile) in cui sono svelate le atmosfere della probabile trasformazione.

C- Il terzo video è un’animazione tridimensionale che, secondo una ciclicità narrativa, introduce l’osservatore nel contesto e lo coinvolge sulle sue trasformazioni urbane prossime secondo un morphing che, strutturato in modo da ricondurre (temporalmente) tutto verso un principio ciclico, testimonia la relatività degli interventi sulla città. All’esterno dello spazio artificiosamente modificato, occupato dai monitor a terra e dalla parete frontale su cui vengono proiettate le immagini sincronizzate sul tempo del metronomo, vengono collocate alcune casse acustiche che trasmettono rumori di betoniere, martelli pneumatici, ruspe, gru …ecc. a simulare “ un fuori”: la edificazione del nuovo centro direzionale e universitario.